
Fine dello stato di emergenza = fine dello smart working?
Il 31 marzo finirà lo stato di emergenza e con esso cesserà la normativa speciale che ha permesso a milioni di lavoratori di lavorare in smart working, che per molti ha voluto dire lavorare da casa, ma il Governo sta pensando ai provvedimento per permettere la continuazione.
Smart working: al 31 marzo cessa la normativa speciale
Il Governo a guida Mario Draghi ha nuovamente confermato che al 31 marzo 2022 verrà meno lo stato d’emergenza.
Cesseranno quindi tutte le strutture create per gestire la pandemia legata al Covid-19 e che tutti noi abbiamo imparato a conoscere, in questi due lunghi anni di emergenza.
Verrà quindi meno la struttura commissariale, la cabina di regia e il Comitato scientifico.
Verrà meno in particolare l’ormai acquisita abitudine allo smart working, che per molti ha significato lavorare dalla cucina di casa, ore di video conferenza dal proprio salotto, rispondere alle mail anche alle dieci di sera, etc
Certo questi non sono aspetti del tutto positivi ed è dipeso dal fatto che lo smart working è stato inteso come home working, con la conseguente commistione tra spazio di lavoro e spazio (e vita) domestico.
Ma non dev’essere tutto male se molti lavoratori, precisamente 4 su 10, vorrebbero conservare anche nel periodo ordinario la modalità di lavoro smart.
Perchè quindi, come si dice comunemente, buttare il bimbo con l’acqua sporca?
Perchè non tenere le cose positive, imparando a correggere gli aspetti negativi?
Smart working: com’era prima del Covid-19
Forse stupirà qualcuno sapere che già prima del Covid-19 la normativa sul lavoro italiana prevedeva l’utilizzo della modalità di smart working.
Prima della pandemia in effetti è sempre stato uno stile di lavoro poco usato, in particolare perchè, come spesso succede in Italia, l’adozione richiedeva una serie gravosa di adempimenti burocratici, in teoria motivati dalla necessità di evitare abusi da parte dei datori di lavoro e volti tutelare il dipendente.
Ecco quindi che veniva richiesta la redazione di un accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore, comunicazioni agli enti pubblici (INPS, INAIL, etc) e quant’altro.
Tali adempimenti, a dire il vero, si sono però ridotti ad essere meri incombenti di scarso valore aggiunto, per questo anche lo smart working ha finito per essere riconosciuto solo come una pratica che complicava molto le cose, gravando i datori di lavoro.
Prima della pandemia, va detto, vi è sempre stato un pregiudizio dei datori di lavoro che pensavano di veder scemare il proprio potere di controllo sull’andamento del lavoro da parte del dipendente.
Questo era un pregiudizio legato più a vecchi schemi mentali, ad abitudini nella gestione dei rapporti di lavoro subordinato, cui non erano esenti nemmeno le organizzazioni di categoria, in particolare i sindacati.
Bada bene, ho detto “erano” perchè la pandemia e le restrizioni legate al contenimento della diffusione del Covid-19, con la conseguente adozione massiccia dello smart working ha spazzato via ogni pregiudizio e a rivelato che, se si vuole si può fare.
La pandemia ha rivelato il valore aggiunto dello smart working
Le necessità di contenere la diffusione del Covid-19 ha costretto milioni di lavoratori in regime di smart working.
L’evento ha costretto in verità a rimanere tutti a casa e questo non può essere chiamato smart working.
Smart working è qualcosa di diverso e di più.
E’ un regime di gestione del rapporto di lavoro subordinato che richiede un’organizzazione del lavoro basata non tanto sulle ore di lavoro, ma su obbiettivi che vanno prefisati dalle parti e poi dei risultati che vanno monitorati.
Richiede quindi non semplici direttive del datore di lavoro e mera esecuzione del dipendente, bensì una maturità del rapporto in uno scambio bidirezionale.
Il lavoratore deve assumere quindi un ruolo attivo nel determinare le modalità e i tempi di esecuzione dell’attività lavorativa, ovviamente in accordo con il datore di lavoro.
tale evoluzione permette quindi al dipendente di gestire il proprio tempo che è una risorsa di grande valore, come tutti ben sappiamo.
Prorio per questo, molti lavoratori che hanno potuto sperimentare lo smart working hanno dichiarato di preferire tale modalità di lavoro e vorrebbero conservarla anche alla fine dello stato di emergenza.
Anche le organizzazioni di categoria hanno compreso il pregio di tale organizzazione e hanno condiviso con il Governo l’opportunità di conservarla, superando l’eccessiva burocratizzazione dei tempi pre Covi-19.
Tra i tanti aspetti negativi, questo è un lascito positivo della pandemia, sempre che si sappia sfruttare nel giusto modo.
smart working con HUBWAY è più semplice

Smart working: dal 1 aprile si cambia…forse
Con la fine dello stato di emergenza dovuto al Covid-19 prevista per il 31 marzo, per lo smart working si ritornerà alle regole precedenti, ma il Governo sta già pensando ad un periodo di transizione
Smart working: si torna all’accordo individuale
Prima della normativa speciale legata al periodo della pandemia, lo smart working non era sconosciuto, seppur poco utilizzato.
Perchè il lavoratore potesse svolgere le proprie mansioni in smart working era necessario che il datore di lavoro ed il lavoratore definissero un accordo individuale che determinasse le modalità di esecuzione dell’attività, con previsione, tra le altre cose, delle condizioni e dei limiti al controllo da parte del datore di lavoro.
Con la decretazione dello stato di emergenza, sono stati emanati molti provvedimenti che hanno reso utilizzabili diffusamente le pratiche di smart working anche senza alcun accordo individuale.
Ora, venendo meno lo stato di emergenza al 31 marzo, la normativa speciale non sarà più applicabile, con ritorno in vigore della normativa ordinaria.
Smart working: l’accordo individuale non è poi così male
In verità non si può dire che sia un male che le parti facciano un accordo per regolare lo smart working.
L’utilizzo massiccio dello smart working ha rivelato alcune criticità, manifestando delle difficoltà per come questa modalità di lavoro è stata interpretata sia dai lavoratori che, soprattutto, dai datori di lavoro.
Uno su tutti è stata la “fusione” tra ambiente lavorativo e ambiente domestico, con la conseguente difficoltà di distinguere l’orario di lavoro da quello da dedicare alla vita, appunto, domestica.
Forse non è male che datore di lavoro e lavoratore mettano bene in chiaro orari di lavoro e di reperibilità, attività di controllo ed altri aspetti che permettano ad entrambi di sapere che cosa aspettarsi dall’altro e che cosa pretendere.
Come dire: patti chiari amicizia lunga!
Smart working: il Governo mantiene il procedimento semplificato
Molti lavoratori hanno già dichiarato che lo smart working è la modalità preferibile per eseguire la propria attività lavorativa, riuscendo a gestire meglio il proprio tempo, eliminando i tempi morti di trasferimento, ottimizzando i momenti della giornata.
Molte imprese hanno già constatato che lo smart working ha permesso di registrare un aumento della produttività.
Infatti lavoratori felici lavorano meglio e producono di più a parità di tempo.
Va da sé che rinunciare ad una condizione in grado allo stesso tempo di migliorare sia la produttività che la qualità della vita dei lavoratori sarebbe folle.
Per questo motivo, almeno per il momento il Ministero del Lavoro ha già comunicato che dopo il 31 marzo sarà conservata la procedura semplificata di comunicazione in vigore nel periodo della pandemia, senza che sia necessario l’accordo individuale.
Come dire, un periodo intermedio, utile per capire meglio come gestire poi i tempi normali.
Magari è anche l’occasione per cominciare a provare gli accordi individuali che, se non devono venire allegati alla comunicazione, sono comunque utili per chiarire i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore.
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Nomadismo digitale: la nuova normalità
Fino a qualche tempo fa essere nomade significava nella migliore delle ipotesi essere un giovane pervaso dallo spirito di avventura, nella peggiore essere uno spiantato senza fissa dimora, ma oggi, grazie anche alle tecnologie moderne, nomadismo digitale significa qualcosa di ben diverso
Nomadismo digitale: non solo una moda
Se il fenomeno del nomadismo è noto da tempo ed ha spesso attirato l’attenzione di scrittori ed artisti, quello del nomadismo digitale è qualcosa di nuovo.
Nel significato tradizionale di nomadismo viene in mente “On the road” di Jack Kerouac, testo simbolo della Beat Generation.
La Beat Generation aveva fatto del nomadismo, inteso come vita intensa e girovaga, un tratto distintivo ed inequivocabile.
In anni più recenti il nomadismo è stato celebrato in un film del 2020 di Chloe Zhao, Nomadland.
Il film ha avuto strepitoso successo agli Oscar del 2021 ed ha vinto molti altri premi.
Il nomadismo tratteggiato da questi precedenti ha tratti molto tipici.
Per gli esponenti della Beat Generation essere nomadi significava svolgere una pesante critica verso il conformismo e la staticità della classe borgese.
La protagonista di Nomadland affronta l’esperienza del nomadismo costretta da una condizione economica sfavorevole e dalla precarietà lavorativa.
Fino a poco tempo fa il nomadismo era sinonimo di trasgressione giovanile o di precarietà di vita.
Ora si manifesta un fenomeno diverso, che caratterizza l’esperienza in un nuovo modo di concepire la qualità della vita.
Nomadismo digitale: il perfezionamento dello smart working
Nella nuova accezione il termine “nomadismo” viene associato all’aggettivo “digitale” a significare che le nuove tecnologie hanno un ruolo determinante in tale modo di vedere la vita.
Gli strumenti digitali, in particolare dispositivi mobili ed internet, hanno avvicinato il mondo in un modo mai visto prima.
Oggi due persone poste a grande distanza possono parlarsi guardandosi in faccia come se si trovassero nella stessa stanza.
Non solo!
Addirittura possono lavorare contemporaneamente allo stesso scritto.
Possono scambiarsi documenti in pochi secondi.
Oppure spedirsi cose che vengono recapitate in pochi giorni.
Non v’è dubbio quindi che molte professioni ed attività lavorative possono essere svolte anche a distanza.
La pandemia da Covid-19 ha costretto molte persone a lavorare da casa, dimostrando che molto (quasi tutto) si può fare anche senza recarsi fisicamente in azienda.
L’esperienza dello smart working reso necessario dal Covid-19 non è stato felice, però ha anche messo in luce delle potenzialità che prima non erano evidenti a tutti.
Infatti con la giusta interpretazione il modello di smart working potrebbe diventare una modalità ordinaria di lavoro.
Gli aspetti positivi dello smart working infatti lo rendono utile a garantire un miglioramento della qualità della vita dei lavoratori.
Nomadismo digitale: è già lo stile di vita di molti lavoratori
Il nomade digitale è un lavoratore che, potendo svolgere la propria attività lavorativa a distanza, sceglie dove vivere, per periodi più o meno lunghi.
Ecco quindi che vi è il libero professionista che decide di stabilirsi per un periodo in un borgo un collina.
Così come la freelance che preferisce lavorare da una località di mare.
Oppure un esperto di marketing che fornisce i suoi servizi da un paese estero.
Ciò non dovrebbe nemmeno destare sorpresa!
Se pensiamo che molti servizi e/o cose che acquistiamo ogni giorno provengo dalle più disparate parti del mondo.
Ci facciamo forse caso?
Questo stile di lavorare si sta diffondendo molto rapidamente, incontrando il favore di moltissime persone.
Ma, a dire il vero, è più un nuovo modo di interpretare la vita, che sta piacendo molto.
Le motivazioni che inducono a scegliere un nuovo modello di vita sono le più varie.
Dal single che preferisce la località di villeggiatura, ai genitori che vogliono garantire ai figli una quotidianità più a misura di bambino.
Un denominatore comune è proprio la libertà di scegliere la qualità della vita che ciascuno ritiene di preferire.
Un aiuto per scegliere la location può venire dalla piattaforma www.hubway.space dedicata a chi cerca il luogo dove svolgere la propria attività lavorativa.
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Workation: lo smart working in vacanza
Lo smart working da condizione emergenziale legata alla pandemia da Covid-19 è diventato un fattore strutturale dei rapporti di lavoro post-Covid
Workation: lo smart working ora è una condizione strutturale
Un recente studio di INAPP, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, ha rilevato che se prima dell’esperienza legata al Covid-19 solo 570mila lavoratori a livello nazionale utilizzava forme di smart working, a seguito della pandemia, nella fase più restrittiva di lockdown oltre 6,5 milioni di italiani hanno conosciuto cosa vuol dire smart working.
Ancora oggi tuttavia, pur avendo allentato un po’ le maglie delle restrizioni per contenere la diffusione della pandemia, oltre 5 milioni di lavoratori rimangono in smart working e oltre quattro lavoratori su dieci dichiara che vorrebbe che la condizione divenisse permanente, con apprezzamento di molte aziende, specie delle imprese medio-grandi.
Gli studi svolti da INAPP infatti attestano che lo smart working non è più una misura per affrontare il periodo emergenziale, ma un nuovo modo di svolgere le attività professionali, ormai integrato nella società post-pandemia.
Workation = lavorare in vacanza
Il fatto che l’adozione di pratiche di smart working diventi una condizione strutturale, comporta una vera e propria rivoluzione nell’interpretare il modo di lavorare.
Va ben chiarito cosa però si intende con smart working.
Non va confuso con home working, che è semplice lavoro da remoto, cioè invece di lavorare in ufficio, otto ore al giorno lo si fa da casa.
Ciò comporta troppo spesso l’invasione della sfera professionale nella quotidianità domestica.
Con smart working si intende invece un lavoro svolto per obbiettivi.
Il lavoratore decide luogo, tempi e modalità coordinandosi con il datore di lavoro a cui va garantito il risultato.
Il lavoratore, come detto, sceglie il luogo dove preferisce lavorare e, perchè no un luogo di villeggiatura.
Workation: lavorare ed abitare in vacanza tutto l’anno
La trasformazione a cui stiamo assistendo però è ben più profonda di quanto si possa ora immaginare.
Le indagini di INAPP hanno infatti rilevato che 4 lavoratori su 10 vorrebbero lasciare le grandi città e trasferirsi a vivere con la famiglia in piccoli centri di provincia.
La vita al di fuori delle grandi città scorre un po’ più lenta e la qualitàambientale è migliore.
Non solo quindi un lavoro che può essere svolto anche da luoghi di villeggiatura, per periodi limitati.
Si tratta di un vero e proprio nuovo modo di vedere la vita professionale, in un’ottica più legata al benessere proprio e della propria famiglia.
Un vero e proprio passaggio da smart working a smart living.
Ecco che requisito essenziale per riuscire in questa trasformazione è trovare lo spazio lavorativo professionale ed accogliente, dove si preferisce.
Ciò e possibile grazie ad www.hubway.space, la piattaforma dedicata allo smart working.
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BUSINESS24TV.IT intervista HUBWAY
Il nuovo modo di vivere lo smart working proposto da HUBWAY incontra interesse e BUSINESS24TV.IT intervista il CEO Enrico Brotto nel corso della rubrica STARTUPPER.
BUSINESS24TV.IT intervista HUBWAY
Nel corso della trasmissione STARTUPPER condotto da Katia Gangale il network on line BUSINESS24TV.IT ha intervistato Enrico Brotto, CEO di HUBWAY, presentando ai propri telespettatori il servizio innovativo offerto dalla piattaforma www.hubway.space.
L’occasione è stata una straordinaria occasione per presentare la giovane società e i suoi servizi ad un pubblico qualificato e competente.
Guarda l’intervista
BUSINESS24TV.IT: l’interesse dei media per HUBWAY
La trasmissione STARTUPPER ha apprezzato l’idea di business proposta da HUBWAY.
Non nascondiamo un certo orgoglio nel vedere media così importanti interessati ad una così giovane società che si propone a diventare leader nel settore dell’affitto temporaneo di spazi lavorativi, conducendo una vera e propria rivoluzione nell’ambito delle pratiche di smart working.
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Sindrome da burnout: la soluzione è un ufficio temporaneo
La diffusione dello smart working dovute al covid-19 ha diffuso anche un nuovo disagio legato all’attività lavorativa: la sindrome da burnout.
Sindrome da burnout e smart working
Le restrizioni imposte per il contenimento della diffusione del Covid-19 ha indotto le aziende ad utilizzare ampiamente lo smart working, che però, specie in Italia, ha significato troppo spesso “home working” cioè “lavorare da casa”.
In realtà smart working vuol dire una cosa ben diversa, significa lavorare da remoto certamente, ma non solo.
E’ la stessa organizzazione dell’attività lavorativa che deve essere “smart” ovvero “intelligente”, permettendo a lavoratore e datore di lavoro di definire gli obbiettivi, le modalità di esecuzione, lasciando il dipendente libero di auto-disciplinare il proprio tempo.
Di smart workin parliamo in altri post e qui ne accenniamo solo per mettere in evidenza che lo smart working nella versione di home working ha comportato la diffusione della sindrome da burnout.
Cos’è la sindrome da burnout
L’home working, cioè il lavorare da casa, se nei primi mesi è stata vista come una singolare, piacevole novità, con il protrarsi della situazione ha manifestato alcune criticità.
Riversando l’attività lavorativa nel proprio ambiente domestico ha causato una commistione che a molti non ha permesso di distinguere le due sfere, che hanno finito con il sovrapporsi pericolosamente.
E quindi il lavoratore, così come anche il datore di lavoro, non hanno più avuto riguardo all’orario di lavoro, con mail e telefonate ad ogni ora del giorno, video call dalle camerette dei figli e così via.
Con il tempo tale stato di cosa ha logorato lentamente lo stato del lavoratore.
Burnout: una sindrome già nota, ora molto diffusa
Letteralmente “burnout” significa “esaurimento”, ma è cosa diversa e ben più specifica di quello che comunemente viene chiamato “esaurimento nervoso”
La sindrome da “burnout” è una patologia riconosciuta dall’International Classification of Disease (ICD), già dal 2019.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità lo definisce un “fenomeno occupazionale” e consiste nello stato del lavoratore per cui non è più capace di affrontare il proprio carico di lavoro quotidiano con le risorse disponibili e finisce per soffrire di una prostrazione cronica.
La serietà della cosa (e per questo motivo viene considerato una sindrome) è che il disagio non è limitato alla sfera professionale, ma si estende spesso alla vita privata.
I disturbi che si possono manifestare variano da persona a persona e possono consistere in affaticamento fisico, prostrazione morale, delusione, logoramento e improduttività, disinteresse per la attività professionale quotidiana fino ad una vera e propria depressione.
Sindrome da burnout: un aiuto può essere un ufficio temporaneo
Se a causa del covid-19 molti hanno sperimentato le criticità dell’home working, per evitare che tale disagio divenga una vera e propria sindrome, una soluzione potrebbe essere evitare che la sfera domestica venga invasa eccessivamente dall’attività lavorativa.
Come fare?
Semplice: reperire un ufficio temporaneo, meglio se in un coworking vicino a casa.
Un ufficio dotato di ogni comfort, disponibile per il tempo che serve, vicino a casa così da raggiungerlo facilmente a piedi o in bici, senza dover nemmeno prendere la macchina.
Il burnout sarà scongiurato grazie alla possibilità di incontrare persone, professionisti, freelance che frequentano la struttura, garantendo confronto ed esperienze che chiusi nella propria casa non sarebbero possibili, con beneficio della propria salute e produttività professionale.
Basta andare su www.hubway.space e trovare lo spazio lavorativo adatto alle proprie esigenze.
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Cookie: nuove linee guida del Garante della Privacy
In vigore dal 9 gennaio 2022 le nuove linee guida del Garante della Privacy per gestire i cookie dei siti internet e limitare la profilazione degli utenti
Cookie: il Garante della Privacy vuole il consenso espresso
Come già stabilito dalla normativa vigente, in particolare dal GDPR, nelle linee guida entrate in vigore il 9 gennaio il Garante della Privacy chiarisce alcuni aspetti circa il consenso all’utilizzo dei cookie durante la navigazione.
I cookie sono stringhe di testo che quando un utente visita un sito internet vengono scritte ed archiviate all’interno del dispositivo utilizzato dall’utente stesso per visitare detto sito.
Alcuni di questi cookie sono necessari per permettere la navigazione (i così detti cookie tecnici), ma altri servono ai gestori dei siti per profilare l’utente, ovvero osservare come l’utente si comporta nel sito.
Per questi ultimi il Garante della Privacy ha stabilito, in accordo con la normativa vigente, che i gestori dei siti richiedano il consenso espresso dell’utente.
Cookie: l’utente dev’essere informato
Già il GDPR ha richiesto che i gestori dei siti internet fornissero l’informativa all’utente circa l’attività di tracciamento, ma nelle nuove linee guida il Garante della Privacy fornisce ulteriori indicazioni.
In particolare l’utente deve ottenere una prima informativa semplice, breve e chiara che lo ponga nelle condizioni di capire che deve dare o rifiutare il consenso e altesì avere la possibilità di accedere ad una informativa più estesa dove reperire maggiori informazioni.
Il Garante della Privacy suggerisce di realizzare un banner al primo accesso al sito, con una prima informativa con la possibilità di esprimere il consenso o meno e con la possibilità di chiudere semplicemente il banner (nel qual caso il consenso si intenderà rifiutato).
Nel banner verrà poi posto anche il link all’informativa estesa.
Cookie: Il Garante della Privacy dice no a scrolling e cookie wall
Lo scrolling, il semplice scorrimento del cursore, non è più una modalità idonea per prestare il consenso all’utilizzo dei cookies.
Il Garante della Privacy chiarisce che anche il cookie wall non è una soluzione accettabile.
Con cookie wall si intende la soluzione tecnica per cui il gestore del sito impedisce l’accesso agli utenti che negano il consenso all’impiego di cookie e ad altri strumenti di tracciamento.
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FESTA IN UN COWORKING? PERCHE’ NO!
Sempre più sono gli spazi e i locali (come i coworking) che permettono di svolgere attività temporanee e le feste private non fanno eccezione, anzi.
Cos’è un coworking
Un coworking è uno spazio adibito a spazio lavorativo dove più persone trovano una sistemazione lavorativa come un ufficio singolo, una scrivania in una stanza open space ovvero un desck condiviso, ovvero una postazione di lavoro su un grande tavolo in comune con altri.
Caratteristica principale dei coworking, oltre alla sistemazione individuale, è che le persone utilizzano uno spazio pronto all’uso solo per il tempo che gli serve e condividono spazi e servizi in comune, come ad esempio un servizio di segreteria, lo spazio per il coffee break, il servizio di pulizie e così via.
Il servizio è fornito da un professionista che predispone tutto ciò che serve per l’attività che il cliente deve svolgere.
Coworking per una festa: facilità di gestione e prezzi contenuti
Detta così non avrebbe molto senso parlare di organizzare una festa in un coworking, ma non è altrettanto incredibile se si considera che molti coworking adibiscono spazi sia per attività di formazione, così come per eventi particolari, come corsi di cucina o di pasticceria, presentazioni di prodotti e quant’altro.
Grazie ad uno spazio dotato di cucina e frigorifero diventa molto semplice quindi predisporre ciò che serve per una festa tra amici.
E’ una opportunità per gestire in modo più flessibile l’organizzazione, spesso limitata dalle esigenze di spazio delle abitazioni private, non certo predisposte a tal fine.
Inoltre spesso i coworking sono facili da raggiungere e collocati in luoghi dove non ci sono vicini che potrebbero lamentarsi per rumori fino a tarda serata.
Un altro buon motivo è sicuramente il prezzo conveniente per l’affitto di questi spazi, con servizi di pulizia compresi, evitando così di dovere lavorare il giorno successivo per riportare casa propria a condizioni di normale vivibilità.
Festa in un coworking: attenzione alla sicurezza
Particolare attenzione va posta però alle regole sulla sicurezza.
La responsabilità è infatti un fattore spesso sottovalutato, ma di importanza cruciale.
Il vantaggio di organizzare una festa privata in un coworking rispetto ad organizzarla in un esercizio pubblico è che si devono seguire le stesse regole valide per le feste nelle abitazioni private.
Sono quindi esclusi i fattori di rischio legati, ad esempio, alle questioni fiscali (sempre che, si badi bene, non vi si svolgano attività commerciali che dovranno rispettare tali regole come ogni altra attività).
Rimangono però molte altre responsabilità come quelle relative alla sicurezza del locale, che sarà onere del gestore del coworking, ed il rispetto delle normative acustiche e di ordine pubblico, a carico dell’organizzatore della festa.
Per trovare il coworking giusto per la festa basta andare su WWW.hubway.space
Quando si decide di organizzare una festa è bene quindi approfondire la tematica delle responsabilità con gli esperti del settore e le autorità competenti.
Se l’organizzazione di una festa è cosa un po’ impegnativa (come tutti sappiamo quando le organizziamo in casa nostra) trovare il locale giusto è cosa semplicissima, basta visitare la piattaforma per l’affitto temporaneo WWW.hubway.space e scegliere lo spazio che si preferisce nella città italiana che si desidera.
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Christmas Pop-Up = Temporary store di Natale
La nuova tendenza di Milano e delle altre grandi città europee è il negozio temporaneo per il periodo natalizio, opportunità che marchi più o meno noti sfruttano per ottimizzare i guadagni.
Il Covid-19 ha diffuso i temporary store di Natale
La tendenza ad aprire un temporary store nel periodo natalizio si è diffusa ancor di più a seguito delle restrizioni dovute al controllo della diffusione del Covid-19.
Infatti la nuova formula permette maggior flessibilità, con risparmio di costi in caso di provvedimenti d’urgenza da parte delle autorità.
Il vantaggio principale è che il temporary store (o negozio temporaneo) rimane aperto solo per un periodo limitato di tempo e poi chiude, con costi quindi limitati al periodo di esercizio.
Temporary store: una moda anglosassone non solo per Natale
I temporary store sono nati in Gran Bretagna nel 2003, ma sono gli Stati Uniti il paese in cui hanno avuto grande diffusione.
Celebri sono infatti i temporary store di Natale di San Diego e Miami.
In Italia i temporary store sono arrivati grazie alle grandi firme internazionali per prime Levi’s e Nivea, ma non solo straniere, infatti anche FIAT è stata tra le prime ad intraprendere l’esperienza.
Quella del temporary store infatti non è un’opportunità solo del periodo natalizio, ma è una forma di vendita adatta a tutto il periodo dell’anno.
Temporary store: come funziona
Con temporary store intendiamo indicare un vero e proprio negozio che apre per un periodo limitato, decorso il quale chiude.
La durata è variabile, da qualche giorno fino a qualche mese, nel corso dell’anno.
I prodotti possono essere i più diversi, spesso sono venduti in edizione limitata ovvero in stock.
L’aspetto che identifica principalmente questo modello è “temporaneo”.
Il periodo di tempo limitato, la provvisorietà costituisce infatti un concetto che ha rivoluzionato l’idea stessa di vendita al dettaglio e anche di negozio stesso.
L’idea di “vendita a termine” fa sorgere nel cliente una sorta di ansia da acquisto, spingendo ad acquistare prodotti senza adeguati confronti o riflessioni, trasformando l’acquisto da azione ad esperienza.
Temporary store: tecnica di marketing perfetta per Natale
Il temporary store ha tutte le caratteristiche per essere una vera e propria attività di vendita, ma non v’è dubbio che sia allo stesso tempo una efficace tecnica di marketing.
Vi sono infatti molte aziende che forniscono servizi collegati all’apertura di un temporary store, che viene vissuto come un vero e proprio evento mondano, con attività promozionali preparatorie degne del lancio dei nuovi prodotti delle migliori marche.
E’ una tecnica infatti utilizzata da brand famosi, ma sempre più sfruttata anche da molti altri marchi per promuovere nuove linee in piazze commerciali nuove.
Questa tecnica è particolarmente favorevole per il periodo natalizio tant’è vero che a Milano è sorto un vero e proprio Christmas Village il primo temporary store dedicato proprio al Natale.
Vuoi aprire anche tu un temporary store?
Cercalo e trovalo su WWW.hubway.space
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Protocollo sullo smart working: serve l’accordo individuale
E’ stato raggiunto l’accordo tra Governo e parti sociali (sindacati e imprese) al fine di stilare il nuovo protocollo sul lavoro agile (il c.d. smart working) di prossima pubblicazione.
Protocollo sullo smart working: ritorno alla disciplina pre Covid-19
Il nuovo protocollo in materia di smart working (precisamente Protocollo sul lavoro agile) propone un cambiamento rispetto alla forma utilizzata nel periodo del lockdown e dell’emergenza dovuta al Covid-19.
In buona sostanza si torna alla normativa pre Covid-19, anche se si tiene conto dell’esperienza maturata nel periodo emergenziale ed in particolare l’ampio gradimento registrato tra imprese e lavoratori.
Al termine del periodo emergenziale (attualmente la data è fissata al 31/12/2021 ma probabilmente sarà prorogato) riprenderà vigenza la disciplina di settore dettata dalla legge nr.81 del 22/05/2017, che prevede un accordo individuale tra azienda e lavoratore per adottare lo smart working.
E’ proprio in ragione di questo accordo che le parti sociali si sono impegnate a rispettare le linee guida dettate dal protocollo
Protocollo sullo smart working: il Governo favorisce gli accordi
Una funzione importante attribuita al protocollo sullo smart working è quella di incentivare gli accordi sia a livello di rappresentanze di categoria, sia aziendali, così da conservare la diffusione di tali pratiche sperimentate nel periodo emergenziale e godere dei benéfici effetti ottenuti in tale periodo, in particolare in ottica di pari opportunità e di benefici ambientali e sociali.
Le parti sociali auspicano però che il Governo introduca incentivi più vantaggiosi rispetto gli attuali.
Protocollo sullo smart working: regole anche per orari, riservatezza e sicurezza
Regola generale perchè si possa parlare di smart working è che l’attività venga svolta da remoto, ovvero all’esterno della sede aziendale, ma non è sufficiente, in caso contrario infatti si parlerebbe più correttamente di remote working.
A fare chiarezza contribuisce il protocollo che evidenzia che dev’essere il lavoratore in smart working ad organizzare liberamente la sua giornata lavorativa in base agli obbiettivi da raggiungere, l’unica condizione è che il lavoratore garantisca la regolare esecuzione della prestazione e il rispetto delle condizioni di sicurezza.
In tal senso gli accordi individuali possono prevedere anche l’esclusione da eventuali luoghi dove eseguire la prestazione lavorativa.
Protocollo sullo smart working: l’utilizzo del computer proprio è ammesso ma non per la Pubblica Amministrazione
Il protocollo sullo smart working da indicazioni anche in merito all’utilizzo delle attrezzature, in particolare del personal computer.
In linea generale è il datore di lavoro a dover fornire gli strumenti di lavoro, ma non è vietato che il lavoratore possa usare anche mezzi propri, salvo che per quanti lavorano nella pubblica amministrazione.
Va osservato però che vi sono anche titoli di responsabilità per il lavoratore qualora gli strumenti aziendali affidati subiscano danni riconducibili a condotte negligenti del lavoratore stesso.
Protocollo sullo smart working: limiti agli straordinari e diritto di disconnessione
Il Protocollo sullo smart working ammette la possibilità di svolgere lavoro straordinario solo se previsto dagli accordi collettivi nazionali e aziendali.
Inoltre dal protocollo, fermo restando il precetto di legge di almeno undici ore di riposo tra un turno e l’altro, viene confermato il diritto del lavoratore alla disconnessione che dovrebbe essere disciplinato nell’ambito dell’accordo individuale.
Protocollo sullo smart working: alcuni aspetti non chiariti
Il protocollo non dice nulla su alcune questioni rilevanti, per cui nemmeno la legge fornisce una regolamentazione e che dovranno quindi trovare disciplina negli accordi individuali.
Tra questi in particolare l’attribuzione al lavoratore dei buoni pasto è controversa, poiché alcune aziende li concedono ed altre no.
Inoltre non viene chiarito chi debba essere onerato dei costi per l’acquisto di strumenti per attrezzare un eventuale spazio domestico (esempio una seduta ergonomica).
Potrebbero essere a carico dell’azienda ovvero deve provvedervi il lavoratore?
A questo potrebbe aiutare l’utilizzo di spazi lavorativi professionali pronti all’uso temporaneo, vicino alla residenza del lavoratore.
Coworking, business center e uffici condivisi sarebbero una spesa detraibile per il datore di lavoro, per dotare il dipendente di uno spazio professionale vicino a casa, a tutto beneficio della produttività. A questo fine aiuta la piattaforma www.hubway.space.
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